L’ apposizione di clausole accessorie al patto di non concorrenza e, in particolare, la previsione di un patto d’opzione a favore del datore di lavoro ed il riconoscimento allo stesso della facoltà di recesso unilaterale è una questione largamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza e non esiste, allo stato, un indirizzo univoco.
ll patto d’opzione nel Codice Civile Italiano è regolato dall’articolo 1331 che espressamente prevede che “quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’articolo 1329“.
L’opzione, considerato il tenore letterale della norma, può indifferentemente essere onerosa o gratuita sebbene, alla luce della speciale tutela riconosciuta ai lavoratori, il pagamento di un corrispettivo non potrà che essere la soluzione preferibile. Di regola, in ogni caso, accade che chi subisce gli effetti dell’opzione riceve dal concedente un prezzo o corrispettivo in ragione del sacrificio che deve sopportare.
La giurisprudenza in origine ha avuto modo di pronunciarsi favorevolmente sia sul patto di opzione che sulla facoltà di recesso unilaterale del datore di lavoro. Più precisamente, quanto all’opzione, si era ritenuto che essa, in quanto convenzione distinta dal patto di non concorrenza, non ne alterasse in alcun modo la struttura, non essendo conseguentemente invocabile l’istituto della frode alla legge in assenza di una concreta elusione delle norme imperative in materia di libertà di lavoro. Quanto alla facoltà di recesso unilaterale, se ne affermava la legittimità ritenendo pienamente operativi i principi generali dettati dell’art. 1373 Cod. Civ., escludendo che dall’attribuzione al datore di lavoro di tale facoltà conseguisse un’indeterminabilità del corrispettivo.
Successivamente, nel corso degli anni, tale orientamento è mutato e, ad oggi, è possibile affermare che esistono due differenti filoni giurisprudenziali: un primo che nega comunque, ed in ogni caso, la possibilità di esercitare un diritto di opzione ed un secondo, più favorevole, che afferma che l’opzione sul patto di non concorrenza risulterebbe in astratto lecita qualora esercitata dal datore prima della cessazione del rapporto di lavoro intercorrente con il lavoratore interessato.
Con espresso riguardo a quest’ultima tesi, occorre precisare come sia escluso comunque che il datore possa dichiarare di non volersi avvalere del patto successivamente alla presentazione delle dimissioni da parte del lavoratore, con conseguente riconoscimento al prestatore di lavoro del diritto a percepire quanto dovuto a titolo di corrispettivo in forza del patto medesimo E ciò in quanto il lavoratore, nel momento in cui rassegna le dimissioni, deve sapere se la sua attività futura sarà limitata dal patto oppure no; l’esercizio successivo dell’opzione non consente tutto ciò, con evidente nocumento del lavoratore che potrebbe pensare di non essere sottoposto a vincoli, ma al contrario potrebbe dover rispettare un patto di non concorrenza.
Con riferimento alla facoltà di recesso unilaterale, invece, deve considerarsi maggioritaria la tesi che prevede che “la risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative” essendo “impossibile attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita”. Una diversa soluzione contrasterebbe con l’esigenza della necessaria delimitazione ex ante della durata del patto.
A cura dell’ Avv. Marcello Giordani – marcello.giordani@studiozunarelli.com