Con la recente sentenza n. 152 del 23 giugno 2016 la Corte Costituzionale ha confermato la legittimità costituzionale dell’art. 96, 3° comma, c.p.c. in tema di lite aggravata, secondo cui, è utile ricordarlo, “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91 [in caso, cioè, di soccombenza], il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
I fatti processuali che hanno condotto alla decisione della Corte possono essere sinteticamente riassunti come segue.
Con ordinanza di remissione del 16 dicembre 2014, il Tribunale di Firenze, terza Sezione civile, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della predetta norma ritenendola in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui prevede che il soggetto beneficiario della “somma equitativamente determinata” sia la “controparte” processuale vittoriosa, e non l’Erario.
Nel caso di specie il Tribunale toscano aveva rigettato l’opposizione formulata ad un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, in quanto “all’evidenza del tutto ingiustificata ed inconsistente”. In particolare, a detta del giudice, l’atteggiamento tenuto dalla parte opponente si sarebbe caratterizzato da uno stato soggettivo di “malafede o colpa grave nell’introdurre una controversia non basata su alcun elemento che potesse fondarne l’accoglimento”, posto in essere allo scopo di “ritardare il pagamento dovuto per il lungo tempo occorrente alla definizione del giudizio”, sfruttando “l’intasamento dei ruoli del contenzioso giudiziario che l’opposizione ha essa stessa incrementato e, in quota parte, determinato”.
Alla luce di tali motivazioni, il Tribunale ha ritenuto l’opponente – soccombente nella causa – meritevole di essere “sanzionato d’ufficio con la misura prevista dall’art. 96 comma 3 c.p.c., mediante la condanna aggiuntiva in un importo equitativamente determinato”. Di qui, tuttavia, i dubbi sulla possibile illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui il legislatore non ha previsto che il pagamento vada a beneficio dell’Erario, quest’ultimo indubbiamente colpito nell’esercizio della propria funzione istituzionale di garantire “un processo di ragionevole durata, equo e giusto”. Secondo l’organo giudicante, la misura di cui all’art. 96, 3° comma, c.p.c. rivestirebbe natura “sanzionatoria e officiosa”, come tale suscettibile di “ben […] eventualmente prescindere dalla domanda della parte e dalla prova del danno, come invece preteso dal comma 1 della disposizione” in parola.
Seguendo tale ricostruzione, l’art. 96, 3° comma, c.p.c. attribuirebbe allo Stato uno strumento di significativa “reazione processuale” finalizzato a reprimere e prevenire “l’irragionevole ricorso alla giurisdizione [ed] all’abuso della giurisdizione”. Così essendo, la parte processuale vittoriosa non avrebbe alcuna ragione di beneficiare di tale somma di denaro, in quanto già soddisfatta dal meccanismo previsto dal 1° comma dell’art. 96 c.p.c., il quale, si ricorda, prevede che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”: in quest’ultimo caso vi è un vero e proprio diritto di azione che la parte può esercitare al fine di ottenere il risarcimento dei danni che la condotta abusiva della controparte le ha arrecato.
Chiamata a pronunciarsi sul tema, la Corte Costituzionale aderisce alla esegesi della norma offerta dal giudice rimettente, nella specie confermando come il 3° comma dell’art. 96 c.p.c. rappresenti uno strumento: a) di natura “sanzionatoria”; b) azionabile d’ufficio da parte dell’autorità giudiziaria a prescindere da qualsiasi allegazione probatoria del danno provocato dal comportamento della parte soccombente; c) dotato di un connotato “innegabilmente” pubblicistico, in quanto finalizzato alla tutela di interessi che non fanno capo esclusivamente alla parte processuale vittoriosa.
Si sottolinea, poi, come la Corte riconosca espressamente “la ragionevolezza della soluzione auspicata dal rimettente”, e ciò in considerazione del fatto che la norma tutela l’interesse – di rango costituzionale – alla garanzia della ragionevole durata di un giusto processo.
Malgrado tale esplicito riconoscimento, i giudici ritengono “non fondata” la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, negando la sussistenza dei “connotati di irragionevolezza” dallo stesso lamentati: la ragionevolezza della interpretazione proposta dal giudice a quo non comporta ex se la irragionevolezza della scelta del legislatore italiano di individuare nella parte processuale vittoriosa il beneficiario della norma. Sul punto la Corte “difende” la libertà di scelta del legislatore nel caso concreto, il quale gode di un esercizio di “discrezionalità” “non costituzionalmente vincolato” in tema di disciplina di istituti processuali.
Non da ultimo la Corte illustra la motivazione per la quale la scelta fatta dal legislatore appare, in ogni caso, preferibile: la parte vittoriosa, beneficiaria di tale somma di denaro, può “verosimilmente” “provvedere alla [relativa] riscossione […] in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico”.
La portata della affermazione da ultimo segnalata permette di concludere per la esplicita ammissione di una maggiore effettività del rimedio deflattivo in esame in ipotesi di riconoscimento, dei relativi benefici, in capo alla parte processuale – piuttosto che all’autorità giudiziaria -, e ciò malgrado la condotta caratterizzata da responsabilità aggravata appaia lesiva di interessi pubblici di cui lo Stato è portatore.
A cura dell’avv. Andrea.Giardini – andrea.giardini@studiozunarelli.com