Il tema dell’interruzione del rapporto di lavoro subordinato in Cina per iniziativa unilaterale del datore di lavoro continua a ricevere molta attenzione da parte degli operatori economici stranieri nella gestione dei rapporti di lavoro dei propri dipendenti assunti in base a contratti di lavoro regolati dalla legge cinese (che il dipendente sia straniero o cinese, da questo punto di vista non rileva). Senza pretesa di esaurire l’argomento, possiamo ricordare che la Labour Contract Law approvata il 28 dicembre 2012 dal Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo ed in vigore dal successivo 1 gennaio 2013, stabilisce al riguardo regole piuttosto stringenti e, come è prassi in materia di diritto del lavoro, a favore della cd. “parte debole” del rapporto, ossia il lavoratore.
La prima distinzione da tenere presente è la presenza o meno di una “giusta causa” che legittima il datore di lavoro a risolvere unilateralmente il rapporto: le ipotesi di giusta causa sono tassativamente previste dall’art. 39 della Labour Contract Law e possono essere riassunte in termini di gravi violazioni da parte del lavoratore delle disposizioni vigenti in azienda (ovviamente se queste non sono a loro volta illegittime), causazione di ingenti danni all’azienda dovuti a serie inadempienze da parte sua, infedeltà nei confronti del datore di lavoro, ovvero a seguito di condanna da parte di una Corte del Popolo per responsabilità penale. In tutti questi casi – e solo in questi – il datore di lavoro ha titolo per interrompere il rapporto (i) senza il consenso del lavoratore e (ii) senza corrispondergli alcuna somma di danaro a titolo di indennizzo.
Diversamente, al di fuori di tali ipotesi, non ricorre “giusta causa” e quindi l’interruzione del rapporto può avvenire legittimamente per iniziativa unilaterale del datore di lavoro soltanto in presenza di talune circostanze (quali, ad esempio, la dimostrata incompetenza del lavoratore anche a seguito di specifica formazione; il significativo e obiettivo cambiamento delle condizioni che erano state poste a base del contratto di assunzione, in assenza di un nuovo accordo su nuove condizioni di base), ma in tal caso il datore di lavoro è tenuto, in alternativa, al preavviso di 30 giorni ovvero alla cd. compensation, pari a una mensilità intera di stipendio per ogni anno solare interamente lavorato.
Lo stesso dicasi per la cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato per mera decorrenza del termine, laddove il predetto indennizzo assume dal punto di vista giuridico più la natura di una “liquidazione” che comunque risulta dovuta.
È facile dunque comprendere come l’ipotesi dell’interruzione anticipata unilaterale del rapporto di lavoro sia scoraggiata a favore di un accordo tra le parti in termini di risoluzione consensuale, che comunque – secondo quanto prevede l’art. 46 n. 2 della Labour contract law, richiede che al lavoratore venga corrisposto un indennizzo in danaro nella misura anzidetta. Va precisato peraltro che tale indennità ha un tetto massimo pari a tre volte la media mensile dei salari dei lavoratori come calcolati ed approvati dai Governi municipali ogni anno, per un numero massimo di anni non superiore a dodici.
La violazione da parte del datore di lavoro dei presupposti e dei limiti per l’esercizio del potere di licenziamento viene infine “sanzionata” mediante l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere una somma pari al doppio di quanto sarebbe previsto in caso di licenziamento legittimo.
(A cura dell’Ufficio di Shanghai – Avv. Andrea Sorgato – andrea.sorgato@studiozunarelli.com)