“I cosiddetti marchi “deboli” sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto dal momento che la fantasia che li ha concepiti non è andata oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento del prodotto, ovvero l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo” (Cass. civ. sent. n. 01267/2016).
È quanto sostenuto dalla Corte di Cassazione, la quale ha dichiarato come in materia di privativa industriale si considerino marchi deboli i segni che non siano dotati di un’elevata capacità distintiva rispetto ad altri segni simili, a causa dello stretto collegamento concettuale esistente tra il marchio e i prodotti contrassegnati.
La debolezza del marchio, infatti, non incide sulla sua attitudine alla registrazione, ma ne rende più difficile la tutela in caso di confusione con altro segno simile, dal momento che di fonte ad un marchio debole basteranno lievi modifiche da parte del marchio del concorrente per evitare conseguenze sul piano legale a carico di quest’ultimo.
Sulla scia dell’orientamento della Suprema Corte, il Tribunale di Bologna ha ribadito come la stretta associazione tra gli elementi semantici del marchio e la natura o la funzione del prodotto cui esso si riferisce, rendono il marchio “debole”, minimizzandone la capacità distintiva e quindi diminuendone la tutela.
Non esistendo, tuttavia, una codificazione in materia, l’individuazione della capacità distintiva di un marchio deve essere sempre condotta in concreto attraverso la disamina del singolo caso e pertanto si consiglia di richiedere il preventivo parere di un legale.
(A cura dell’Avv. Elisabetta Sgattoni – elisabetta.sgattoni@studiozunarelli.com)
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