Con l’entrata in vigore della legge “Balduzzi”(n. 189/2012), il legislatore aveva manifestato l’intenzione di intervenire in un settore, quello sanitario, fortemente caratterizzato dall’eccessiva esposizione del personale medico sul fronte della responsabilità penale e civile. L’intervento mirava a due principali obbiettivi:
– limitare la responsabilità dei singoli medici impiegati dalle strutture ospedaliere per consentire una riduzione dei costi assicurativi a loro carico;
– limitare il ricorso alla cosiddetta “medicina difensiva”, ovvero all’eccessiva prescrizione di esami ed accertamenti per evitare in radice potenziali accuse di negligenza da parte dei pazienti, con conseguente aumento dei costi sanitari a carico della collettività. In particolare, l’art. 3, dal titolo “Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie” prevede: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attivita’ si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. Dalla sua entrata in vigore questa norma è stata oggetto di numerose e controverse interpretazioni da parte della dottrina e della giurisprudenza. Il tradizionale orientamento giurisprudenziale degli ultimi anni infatti prevedeva che, tanto la struttura sanitaria quanto il medico-dipendente, dovessero rispondere nei confronti del paziente/danneggiato ex art. 1218 c.c.; la struttura in base al cosiddetto contratto di “spedalità” o “assistenza sanitaria” che si perfeziona per fatti concludenti con il ricovero, il medico in base alla teoria del “contatto sociale” e quindi anche in assenza di uno specifico contratto concluso con il paziente. In tale contesto, il richiamo operato dalla norma in parola alla re-sponsabilità extra con-trattuale scolpito all’art. 2043 c.c. a carico del medico ha dato spazio a diverse interpretazioni circa la reale volontà del legislatore. Sotto questo profilo si ricordano talune pronunce di diversi Tribunali i quali hanno criticato l’art. 3 L.189/2012, etichettandolo come un errato rinvio alla disciplina aquiliana in sede civile. Ad esempio, il Tribunale di Rovereto (sent. 29/12/2013) ha stabilito che le intenzioni del legislatore erano quelle di riferire l’ap-plicabilità dell’art. 2043 c.c. all’azione del giudice penale nel caso di esercizio dell’azione civile.
Sull’altro fronte alcuni Tribunali, tra i quali quello di Torino, (sent. 26/2/2013) hanno intravisto in detta norma una scelta di rottura con l’intera elaborazione giurisprudenziale vigente ed hanno preso l’art. 2043 c.c. come norma di riferimento, sia per la responsabilità del medico sia per quella della struttura sanitaria. Nel dibattito si è inserita anche la Suprema Corte con una sentenza del febbraio 2013, accogliendo solo in parte lo spirito innovatore della norma e quindi limitandone l’efficacia.In questo panorama di incertezza si inserisce la recente sentenza del Tribunale ambrosiano del 17.7.2014 che dovrà necessariamente portare ad uniformare l’orientamento della giurisprudenza verso il reale intento del legislatore.
Con la sentenza in esame, infatti, il Giudice milanese ha tracciato un opportuno percorso critico sull’operato della giurisprudenza di questi ultimi due anni, favorendo un’analisi approfondita della disciplina, ed è giunto ad affermare, con un’impostazione logica condivisibile, che la posizione del medico deve essere tenuta su un piano distinto da quella della struttura sanitaria. La sentenza si dissocia dalla visione interpretativa della stessa Suprema Corte sul valore attribuito all’art. 2043 c.c. nel contesto dell’art. 3 e si limita ad applicarlo secondo “il senso che può avere in base al suo tenore letterale e all’intenzione del legislatore”, come prevede l’art. 12 delle preleggi. Pertanto, mentre la struttura sanitaria risponde nei confronti del paziente sempre sul piano contrattuale, in virtù del contratto di “spedalità” (il legislatore non è inter-venuto su questo punto), il medico che non abbia stipulato un contratto con il paziente deve essere chiamato a rispondere solo e comunque sulla base dei principi della responsabilità extra contrattuale. In questo modo la norma assume un valore lineare ed efficace e può rappresentare l’inizio di una piccola rivoluzione del settore. Gli effetti di questo orientamento, se saranno confermati dalla Cassazione, porteranno ad una serie di conseguenze sia sul piano giuridico sia sul piano economico:
1) sul piano probatorio, la responsabilità aquiliana prevede un’inversione del-l’onere della prova in capo al paziente;
2) sul piano processuale, i termini di prescrizione dell’azione per il paziente si riducono da dieci a cinque anni;
3) sul piano commerciale, la minore esposizione di una larga parte dei medici, in virtù dei due punti precedenti, dovrebbe favorire una riduzione dei premi assicurativi sulla polizza di responsabilità professionale, ormai obbligatoria;
4) sul piano economico/politico, i me-dici dovrebbero essere incentivati a limitare il ricorso ad indagini dia-gnostiche inutili sui propri pazienti, alleggerendo così i costi della sanità pubblica. Si tratta natural-mente di previsioni che non matureranno in tempi rapidi, ma le premesse sembrano indicare la giusta direzione.
(A cura dell’Ufficio di Milano – Avv. Michele Borlasca e Avv. Paolo Leoniero Galleani – 0239680538)