La fugacità dei confini della c.d. “concorrenza sleale”
La Corte d’Appello di Bologna, lo scorso 6 agosto, ha confermato integralmente la sentenza di primo grado del Tribunale di Rimini, con la quale due soci-amministratori di una società erano stati condannati al risarcimento dei danni per aver posto in essere, in accordo tra loro, atti di concorrenza sleale per storno di dipendenti e sviamento di clientela.
In particolare, la Corte, aderendo all’orientamento ormai prevalente in giurisprudenza, ha affermato che ciò che ha determinato l’illiceità del comportamento non è stato il passaggio dei dipendenti alla concorrenza, ma le modalità e le circostanze con cui tale passaggio è in concreto avvenuto.
Difatti, la mera circolazione di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente non può, di per sé, costituire attività illegittima, dal momento che la loro mobilità rappresenta una delle massime estrinsecazioni di alcuni principi costituzionalmente garantiti quali, da un lato, il diritto del prestatore di lavoro a migliorare la propria posizione professionale e, dall’altro, il principio di libertà di iniziativa economica.
Ne consegue quindi che, per poter qualificare lo storno di dipendenti quale comportamento illecito, è necessario un quid pluris individuato dalla giurisprudenza di legittimità nella sussistenza del cd. animus nocendi, ossia nella consapevolezza dell’agente dell’idoneità del proprio atto a danneggiare l’altrui impresa e nella precisa intenzione di conseguire tale risultato. Per di più, nella valutazione della sussistenza di tale animus, bisogna tenere in considerazione parametri quali il numero di dipendenti che si assumono stornati, il tempo intercorrente tra dimissioni e assunzioni, la posizione da questi rivestita all’interno dell’azienda e, quindi, l’importanza delle mansioni svolte, l’esperienza e la conoscenza dei rapporti con la clientela e con i fornitori da ciascun dipendente acquisita, e così via.
In realtà nonostante si sia cercato di individuare dei criteri che consentano di identificare quando lo storno di dipendenti e lo sviamento della clientela siano illeciti il confine tra un comportamento integrante un’ipotesi di responsabilità civile e un comportamento invece lecito (mera espressione dunque del principio di libera circolazione dei prestatori di lavoro) pare essere ancora molto labile.
Ed invero la fugacità dei confini della “concorrenza sleale” emerge altresì sotto un altro profilo.
Qualora infatti lo storno di dipendenti e lo sviamento della clientela venissero considerati come atti di disposizione del patrimonio sociale, potrebbero in astratto altresì integrare il delitto di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c.
Orbene, premesso che l’intenzione non è quella di “declassare” i prestatori di lavoro da persone a beni patrimoniali, ben si potrebbe parlare di “disposizione di beni sociali” anche nell’ipotesi di storno di dipendenti atteso che, con il passaggio dei prestatori di lavoro da un’impresa ad un’altra, trasmigra anche la loro esperienza professionale e si determina così il depauperamento dell’azienda cd. stornata. In questa prospettiva si considera il dipendente non in quanto tale bensì lo si identifica nel suo valore e nella sua capacità ed esperienza professionale voci quest’ultime proprie dell’avviamento che, pacificamente, rientra nei cd. beni immateriali dell’azienda.
Infine,analoga conclusione potrebbe essere tratta anche per lo sviamento della clientela in quanto, pur essendo quest’ultima stata definita come una “mera aspettativa di reiterazione di rapporti contrattuali”, rappresenta pur sempre un valore “non espresso” dell’azienda che come tale, se dirottato, può incrinare la capacità reddituale e concorrenziale dell’impresa.
(A cura dell’Ufficio di Trieste – Prof. Avv. Massimo Campailla – 0407600281)