Nell’ambito dell’attività di consulenza stragiudiziale che lo Studio presta alla propria Clientela, si è andata consolidando una spiccata expertise in materia di contratti di agenzia. In particolare, lo Studio gestisce la genesi del rapporto, supportando il Cliente nella scelta delle formule più rispondenti alle sue esigenze e fornisce ausilio durante la vigenza del rapporto, fino a curarne anche le eventuali fasi patologiche.
A riguardo, appare dunque interessante soffermarsi sulla disciplina prevista in materia di contratto di agenzia e quindi del tormentato rapporto tra l’art. 1751 c.c. e gli AEC. Le modifiche intervenute nel corso degli anni sull’assetto normativo e della contrattazione collettiva hanno mutato il volto della problematica inerente la materia dell’indennità di fine rapporto, approdando ad un pressoché sostanziale allineamento tra le due discipline, originariamente difformi, nel senso che in entrambe il diritto all’indennità è oggi subordinato alla persistenza – al momento della cessazione del rapporto – di un portafoglio clienti procurato dall’agente, del quale approfitta il mandante. A tal riguardo, il codice civile riconosce il diritto in capo all’agente di percepire l’indennità di fine rapporto solo se quest’ultimo sia in grado di dimostrare di aver apportato nuovi clienti, o comunque di aver sviluppato significativamente la clientela precedente, e sempre che il preponente continui a godere dei vantaggi, in termini economici, derivanti dall’attività svolta dall’agente.
Nel caso quindi in cui non si verifichino cumulativamente le suddette condizioni, ovvero nel caso in cui l’agente non sia in grado di dimostrarle, a quest’ultimo non sarà dovuta alcuna indennità alla cessazione del rapporto. Pertanto, il difficile onere probatorio gravante sull’agente potrebbe costituire un interessante spunto di riflessione per l’eventuale scelta del sistema codicistico. Per ciò che concerne gli AEC, invece, premesso che trattandosi di una disciplina unitaria ed inscindibile ne è preclusa una applicazione parziale, si rileva come in merito al trattamento di fine rapporto, gli stessi prevedano un trattamento di maggior favore nei confronti dell’agente, garantendogli comunque il diritto alla percezione di una indennità minima (FIRR) per il solo fatto che il rapporto sia venuto a cessare.
La disciplina prevista a riguardo, dalla contrattazione collettiva, si fonda infatti su presupposti diversi rispetto a quelli di cui all’art. 1751 c.c. e quindi non legati (ad eccezione della indennità meritocratica), all’apporto di nuova clientela né tantomeno alla permanenza dei vantaggi nella sfera del preponente, bensì basati sulla durata del rapporto di agenzia e sulle provvigioni percepite, che rappresentano la base di calcolo per la quantificazione della indennità in questione. Infatti gli accordi collettivi riconoscono all’agente un importo minimo garantito a titolo di indennità, che prescinde da qualsiasi considerazione in merito all’operato ed ai risultati concreti ottenuti dall’agente nello svolgimento del proprio mandato, e che quindi il preponente ha l’obbligo di accantonare annualmente presso l’Enasarco, ovvero di versare direttamente all’agente (suppletiva di clientela) qualora il rapporto si sciolga per volontà del preponente e non dipenda da inadempimento dell’agente. In ogni caso, anche da un punto di vista pratico, la disciplina degli AEC si rivelerebbe più agevole per ciò che concerne la quantificazione delle indennità, posto che la contrattazione collettiva predetermina degli scaglioni di valore cui fare riferimento ai fini del calcolo, che rimane comunque vincolato all’incremento di fatturato, inteso come volume delle vendite effettuato dalla mandante nell’area assegnata all’agente.
Da ultimo, si rileva come l’ultima versione degli AEC abbia di fatto previsto una disciplina in grado, almeno potenzialmente, di porre un freno alla prassi, avallata dalla giurisprudenza pronunciatasi negli anni addietro, di richiedere ed ottenere le indennità degli AEC per poi avviare, in un secondo momento, un giudizio per richiedere la più alta liquidazione prevista dal codice civile.
Gli AEC costituiscono quindi una disciplina alternativa a quella del codice civile: per tutti i rapporti soggetti alla disciplina dei nuovi AEC non saranno quindi più invocabili quelle sentenze della Suprema Corte di Cassazione che ammettevano sia il ricorso alla contrattazione collettiva sia l’invocazione della normativa civile, così condannando le case mandanti a liquidare la differenza tra quanto già pagato in applicazione degli AEC e quanto dovuto in forza dell’art. 1751 c.c.
(A cura dell’ufficio di Bologna – Avv. Elisabetta Sgattoni – 051 2750020)